Proiezione riservata nella sala Anica di Roma del film “Uomini di Dio” di Xavier Beauvois, Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes 2010
Anche l’organizzazione di questa serata nasce da questo desiderio: il cinema – la “settima arte” – non è solo il “cinepanettone di Natale”, magari anche utile per trascorrere due ore spensierate, ma è anche un modo per introdurci a pezzi di realtà che, come in questo caso, ci hanno fatto incontrare delle belle, e per questo anche drammatiche, storie di testimoni della fede: come sono i monaci trappisti protagonisti di questa storia, che ci testimoniano come la fede non chiude mai alla realtà, non ci stringe mai nello stretto perimetro dei (soli) nostri amici e delle (sole) nostre abitudini, ma ci apre alla realtà totale, alla realtà tutta, come questi monaci aperti al mondo islamico, non guardandolo come il nemico, ma come un pezzo di realtà, comunque, proveniente da Dio (“Dio è tutto in tutto”).
A Cannes, dove ha vinto il gran premio della Giuria al festival di Cannes (in pratica il secondo premio, ma meritava la Palma d’oro), sorprese la commozione e la stima conquistata in una critica che non ama certo i film “religiosi”. In seguito, il clamoroso successo in Francia (dove il fatto che racconta è ben noto, mentre da noi molto meno) con oltre tre milioni di persone che l’hanno visto, hanno trasformato Des hommes et des dieux in un fenomeno culturale imprevedibile.
Uscito in Italia con il titolo Uomini di Dio (non letterale, e questo ha suscitato qualche polemica: la traduzione letterale sarebbe “Uomini e dei”, a sottolineare il rapporto tra diverse religioni e non la focalizzazione solo su “questi” uomini di Dio), il film di Xavier Beauvois racconta la vita e la morte di un gruppo di monaci cistercensi francesi nell’Algeria degli anni ’90, insanguinata dalla guerra tra i terroristi del Fronte Islamico di Salvezza e il regime militare corrotto dell’epoca.
I sette vivono nel convento di Thibirine nell’amore, ricambiato, per la popolazione musulmana dei dintorni, che vede nei monaci cattolici un punto di riferimento e di sicurezza. E anche di aiuto concreto soprattutto per le cure mediche che uno dei religiosi (frère Luc) riesce ad assicurare a tutti, senza distinzioni, ma con particolare riguardo a donne e bambini. Le cose, si avverte, non sono però così idilliache – e infatti i fondamentalisti della GIA erano in azione già da anni – ma è la strage di un gruppo di operai croati cristiani, in un cantiere nei dintorni, da parte dei rivoluzionari islamici a far capire ai monaci che sono in pericolo.
Di lì a poco un’irruzione nel convento farà temere il peggio, ma non avrà conseguenze; anzi, instilla nel capo dei terroristi una forma di rispetto per frère Christian de Chergé, priore del convento, fermo nella sua fede (i terroristi, fra l’altro, irrompono, la notte di Natale) e mite al tempo stesso. Ma nel gruppo di religiosi serpeggia la paura, non tutti sono disposti ad aspettare una morte, possibile se non probabile.
Passeranno lunghi mesi, tra la tentazione di scappare e tornare in Francia e la convinzione di assolvere a un compito più grande, nella fede profonda in Cristo e nell’amicizia reciproca tra di loro, confortando un’ancor più impaurita popolazione misera e bisognosa del loro aiuto. Finché il momento del martirio, per sette di loro, si compirà. Importa sapere se furono davvero i terroristi che li rapirono o l’esercito che li inseguiva per far ricadere su di loro il sangue dei monaci?
Uomini di Dio ha appunto il merito di rievocare una pagina (dalle prime tensioni del 1993 all’uccisione del 1996) nota a pochi del lungo capitolo dei martiri cristiani del 900. Il regista Xavier Beauvois, con uno stile austero degno di maestri del passato quali Dreyer e Bresson e solo qualche accenno retorico ma giustificato nel finale, mette in luce l’umanità dei religiosi, nei quali alberga l’umanissima paura ma anche un amore incrollabile in Cristo e nel loro prossimo.
Tanto da far dire a frère Christian (al libro Più forti dell’odio, da cui sono tratte lettere e testi del priore e dei suoi confratelli, si ispira il film) in un testamento che il film fa “leggere” nel finale, parole che non sfuggono il martirio ma nemmeno lo cercano (temendo che la colpa ricada indistintamente sull’amato popolo algerino). Soprattutto parole, commoventi, che esaltano la vita più che la morte, abbracciando anche l’assassino di cui non si conosce ancora il volto ma di cui si intuisce l’arrivo.